Inno all’identità (e alla Pearà)

Ci sono mattine in cui ti svegli, leggi ‘questo e quello’ e vieni inspiegabilmente assalita dalla voglia di affermare un’identità. Quella che ti colloca in un Paese con opere d’arte di inestimabile valore (copritevi la faccia, decerebrati!). Quella di scienze, tecnologie e cervelli in fuga.

Quella dell’osannata, e spesso mal copiata, gastronomia. Quella della ‘veronesità’, che fa poi rima con PEARA’ (che Bernini non s’offenda, farla bene è una forma d’arte).

Eh si, la salsa a base di brodo, pane raffermo grattugiato, midollo di bue (siate dannati se lo sostituite con il burro) e abbondante pepe, è un simbolo. Il tegame che borbotta lentamente sul fuoco (magari della stufa la domenica mattina) è un rituale :”la g’ha da còrar nel piato”, mi redarguiva nonna. Io continuo a preferire la consistenza che le permetta di abbracciare più saldamente le carni.

Quale sia la storia di questo piatto di recupero ce lo racconta il prof. Andrea Brugnoli nel suo Magna e Tasi, eccovi un estratto: “una chiara esemplificazione di cosa fosse localmente la piperata della Verona Medievale ci viene dagli statuti delle arti del 1319, nel Misterium merzariorum (l’arte dei merciai), si dice di come sia proibito confezionarla o venderne se non si tratta di ‘piperata di pepe in cui vi sia zafferano, cannella e zenzero’. Una miscela di spezie dunque, in cui il pepe viene ulteriormente aromatizzato e che veniva utilizzata con tutta probabilità proprio per condire le carni, come ci illustrano gli statuti di Ovidio di Fumane, che prevedono un rapporto annuale con paparele in brodo di carne lessa accompagnata appunto con una piperata.

Una prassi culinaria che trova evidentemente una sua continuità nella versione divenuta oggi canonica, che mantiene il gusto medievale e rinascimentale delle spezie, seppure semplificata da quegli elementi che devono essere apparsi a un certo punto eccessivamente dominanti o comunque legati a un gusto che viene superato nella cucina tra il XVIII e il XIX secolo”.

pearà

Alcune versioni odierne la impreziosiscono con Grana Padano o Parmigiano (per aggiungere sapidità nelle versioni prive di midollo). Io vi propongo quella citata nel libro:

Ingredienti:

– 30 gr di midollo di bue

– 150 gr di pane raffermo

– brodo di carne q.b.

– pepe nero q.b.

Sciogliete a fuoco basso (meglio con diffusore) il midollo in una pentola alta di coccio, unite il pane grattugiato (non biscottato), e tostatelo lievemente. Aggiungete abbonante pepe nero e coprite di brodo a formare una salsa poco più liquida di una purea, lasciando sobbollire a fuoco bassissimo per almeno un paio d’ore (eventualmente aggiungendo brodo caldo se troppo densa).
Servite bollente e accompagnate con un lesso misto: gallina, lingua, polpa, testina, cotechino.

Sono anche quei piatti che consiglieresti agli amici non autoctoni che vogliano calarsi nella cucina di territorio, anche quelli che probabilmente già la conoscano ma apprezzano i ‘ripassi’.

Jeremy, this one’s for you. Enjoy your time in Verona! 😉

 

 

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2 risposte a "Inno all’identità (e alla Pearà)"

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