Dopo circa un mese abbondante dal mio arrivo nella terra dei kiwi, e all’inizio della quinta settimana di vendemmia “seria”, è forse il caso di fare un resoconto della mia esperienza fino a qui.
Prima di tutto un po’ di cifre, tanto per inquadrare la situazione: l’azienda per cui sto lavorando è essenzialmente un gigante, non la più grande cantina neozelandese in termini numerici, ma comunque un bel colosso: sei cantine sparse in giro per la Nuova Zelanda, 250 impiegati permanenti per una produzione media annua di 18 milioni di bottiglie (per fare un confronto in termini numerici l’intera Franciacorta si aggira sui 10-11 milioni di bottiglie annue). Circa la metà dell’intera produzione è costituita da Sauvignon Blanc, che fondamentalmente “paga le spese”, mentre il numero complessivo di etichette, distribuite su tre livelli di prezzo, è di circa 50.
In aggiunta a tutto questo è da segnalare che l’azienda è definita la “New Zealand’s most awarded winery”, nonché una delle più “antiche” dell’isola, risalendo la sua fondazione al lontano 1962.
Un bel top player, insomma, e tutto orgogliosamente con tappo a vite.
Uno degli aspetti interessanti di questa azienda è che nonostante le dimensioni ci sia effettivo spazio per il biologico: circa il 30% delle superfici vitate sono in conduzione biologica, e diverse etichette presentano la certificazione bio. Da ciò deriva che il processo produttivo per questi vini segua un protocollo piuttosto rigoroso, fatto di tracciabilità, certificazioni e tecniche enologiche ad hoc; in cantina si cerca anche di avere una separazione netta tra le attrezzature utilizzate per il prodotto convenzionale e quello bio. Un altro punto a mio avviso affascinante è la sperimentazione e l’utilizzo di varietà cosiddette minori: l’Albarino, vitigno bianco spagnolo il cui mosto profuma di Estathé al limone (giuro!), il portoghese Verdelho e l’italianissima Arneis, che a quanto pare sta sempre più prendendo piede tra i vigneti aziendali, e su cui si sta sperimentando un’interessante e singolare macerazione su bucce. Una bella sfida è anche la fermentazione di alcuni chardonnay che vanno a finirire nei blend dei vini di punta, e che vengono fatti fermentare spontaneamente in barriques, senza inoculo.
Le lavorazioni delle uve bianche sono al momento quasi terminate, ad eccezione del Sauvignon Blanc che arriverà più avanti dalla zona di Marborough, ma in forma di succo e non di frutto intero; abbiamo ricevuto Chardonnay, Pinot Grigio e Gewurtztraminer, su cui sono state applicate le pratiche enologiche più correnti nel nuovo mondo..perciò via libera a chips, staves e compagnia bella.
Ma in sostanza, come si lavora in Nuova Zelanda?
Beh, limitatamente alla mia finora breve esperienza, posso affermare che quaggiù si lavora abbastanza bene, in tutti i sensi. In cantina si respira un clima (non dico rilassato perché in vendemmia non è proprio possibile), che facilita i rapporti; a nessuno viene negata una risposta, anche alle domande più banali, come spesso sono le mie, e i volti nonostante tutto sono spesso sorridenti. Il team è internazionale, come in ogni cantina del nuovo mondo che si rispetti, ma il motivo è abbastanza semplice: in Nuova Zelanda è difficile trovare personale che si limiti a lavorare per il solo periodo vendemmiale (e magari fare turni pesanti) perciò, con pragmatismo anglosassone, viene “importato” il capitale umano necessario.
Rispetto al modo di lavorare che ho trovato in California, molto incentrato sull’impiego di team di tre o quattro persone, qui si punta molto sull’individualità: ad ognuno, all’inizio del turno, viene affidato un certo numero di fogli di lavoro dettagliati, che deve seguire rigorosamente, e che quando terminati deve firmare e sottoporre ai supervisori. Può sembrare un sistema macchinoso o burocratico, ma posso assicurare che permette di avere una traccia capillare e sistematica di tutto quanto viene fatto. L’ordine regna sovrano e rigoroso, ogni cosa, dalla più grande alla più insignificante ha il suo preciso posto; ci sono etichette dovunque che indicano che quella tal cosa va lì e non altrove. Persino le pompe hanno un “parcheggio” a loro dedicato, con tanto di strisce gialle e nomi dipinti sul pavimento. Anche relativamente alla sicurezza non si scherza: qando si è in cantina gilet giallo fluo e elmetto sono obbligatori per tutti, head winemaker compresi.
E vorrei anche aggiungere una piccola nota di costume: avete presente gli “stivaletti” Bloundstone, che vanno (andavano?) parecchio di moda tra i “fighèt”? Ecco, in Nuova Zelanda e Australia sono le scarpe da lavoro per antonomasia, vengono utilizzate in qualsiasi ambito lavorativo, dall’agricoltura all’edilizia…inutile sottolineare che non esiste calzatura peggiore per lavorare in cantina, ma quelli mi hanno dato, e quelli devo usare!
Il susseguirsi incessante di turni non mi concede tregua e per il momento non ho il tempo materiale per esplorare le zone viticole e cantine più interessanti; ma prometto che non appena il ritmo calerà un attimo mi ci dedicherò con coscienza.
Un punto è già segnato sulla mappa, prossima tappa Waiheke Island!