Che cos’è un territorio se non l’espressione di un popolo che si manifesta in ogni sua forma, in tutto ciò che possiamo osservare, toccare, annusare e gustare?
Nei miei giorni trascorsi negli Stati Uniti, sono potuto entrare nella cultura dei suoi abitanti, negli usi e nei modi di fare, nella soggettiva percezione della bellezza e della bontà delle cose.
Non esiste un orario “giusto” per fare ciò che si deve fare, per mangiare o per acquistare qualunque cosa. Multi etnicità e integrazione hanno creato un modello dinamico nel quale la libertà di scegliere senza troppi compromessi ha portato le persone a non essere legate a schemi arcaici e a essere veramente libere, nella vita come in ogni minima scelta della giornata. Uno stile di vita che li ha indotti a non essere schiavi della routine e a non avere paura degli imprevisti cambiamenti che la vita, spesso, riserva.
Il Texas è grande, con il verde splendente dell’erba, l’oro del fieno, con una terra che pare ramata e il nero del petrolio a fare da sfondo a una ricchezza disomogenea e che sa come pesare sulla società. È più grande il doppio rispetto l’Italia con meno della metà degli abitanti e rappresenta “la fattoria americana” poiché ha la massima concentrazione di aziende agricole di tutti gli Stati Uniti. È spazio immenso che ricorda i profumi della campagna del centro Italia quando arroventata dal caldo sole d’agosto.
Tornando in auto da Houston siamo passati davanti a moltissimi ranch, ognuno con il logo dell’azienda incastonato nei cancelli d’ingresso che facevano da palo a chilometri di recinzioni che si perdevano a vista d’occhio. C’è sano orgoglio nell’essere texani. Loro non suonano Musica County, ma musica e basta. Non indossano il cappello da cowboy, ma Il cappello. Il caldo di quei giorni che per me era atroce, per loro era caldo e basta.
La cucina è una prelibatezza, basta saper scegliere. Il confine con il Messico ha introdotto lo stile Tex-Mex e in molti posti, dove si producono i tacos, non ne fanno certo un segreto bensì un vanto, in quella che rappresenta la fusione culinaria di due culture.
E poi l’ordine logico delle cose: in un ristorante messicano ci sono messicani, idem per i giapponesi, cubani, indiani…
Poi c’è la cucina di Tracie; chiara, netta, precisa, saporita, equilibrata e quasi certamente influenzata anche dagli anni trascorsi a Napoli. Un fritto perfetto per Okra, verdura texana di origine africana della quale ho già scritto e poi i suoi tacos perfetti, il primo piatto che mi sono divorato appena arrivato a casa Parzen. Una grande attenzione alle verdure, che devono essere rigorosamente “bio” o meglio “organic” in quanto l’uso di pesticidi in quelle zone è ancora massiccio per molte coltivazioni. I fagioli li acquista freschi e non in scatola, così come la frutta e in questo mi sono dovuto fortemente ricredere sul fatto che gli americani “non sappiano mangiare” e oltre alla cucina di Tracie ne ho avuto conferma anche dalla spesa fatta con Jeremy in un supermercato di Austin, dove il reparto dedicato al fresco occupava più di un terzo della superficie utile.
E poi la cultura del vino, che dalla California al Texas rappresenta un punto d’osservazione particolarmente interessante nel quale vorrei addentrarmi di più e -nel caso del Texas- lo farò nel post di domani. Il cosiddetto bio o organic, è entrato prepotentemente anche nel costume americano, non tanto come sistema per tutelare l’ambiente quanto come prodotto poco invasivo nel minacciare la salute dei suoi fruitori, gli stessi che però riconoscono e consumano i vini identificati come grandi (ben presenti nelle carte dei vini) e senza preoccuparsi della loro salubrità (ma questa è consuetudine anche in Italia).
Me ne sono tornato a casa con tante idee e nuovi spunti e con la voglia di misurarmi con un territorio tanto vasto quanto affascinante e seducente nella sua multiformità culturale e fisica.
Ho conosciuto persone delle quali non mi scorderò mai.
Ho rinsaldato l’amicizia con Jeremy che, pensate il destino, è iniziata nel settembre del 2008 in una visita da Ca’ del Bosco per mano di un altro amico, Franco. In quei giorni abbiamo parlato di lavoro, di vita, del futuro… abbiamo macinato chilometri sulle immense strade americane, abbiamo ascoltato la sua musica a bordo di una Ford Taurus, mi ha fatto incidere una poesia di Pasolini, abbiamo visto il treno più lungo del mondo, mi ha provocato un infarto sulla strada che da San Diego porta a Los Angeles, abbiamo bevuto vino, birra e mi ha fatto apprezzare l’arte della cucina giapponese e mi sono ubriacato con i sorrisi della piccola Georgia. 🙂
Non avrei mai potuto visitare l’America in un modo migliore, con una giuda più dotta e soprattutto condividere così perfettamente il tempo con un amico davvero caro.
Mi sono portato a casa la voglia di ritornare al più presto!
Grazie man! Bromance.
ps: il prossimo anno però torno ad aprile! 😉
grazie per il racconto di questi giorni Giovanni
abbiamo viaggiato con te
TerraUomoCielo – LandManSky
grazie a te, Davidone!
man, sono contento che tu abbia “vissuto” la nostra america e ti ringrazio per l’amicizia (bromance) e per le parole così generose nei nostri confronti… un abbraccione j
Man, grazie a voi di cuore! Bromance
Nel tuo viaggio straordinario, ho rivisto in te lo stesso entusiasmo di quando in vespa iniziavi ad esplorare le vigne, i viticultori, le cantine.. Complimenti..
Grazie Marcello! 🙂
che parole gentili! ci siamo divertiti molto…devi tornare a piu presto, gli manchi alla piccolina 😉
anche lei mi manca!! 🙂
grazie Tracie, tornerò al più presto ma non ad agosto! 😉