Tutto inizia e continua in Langa. Ricordo come fosse ieri quando con mio padre si andava a Dogliani per prendere il Dolcetto in damigiana. Il viaggio era un’odissea a bordo di un fiorino rosso (base fiat 127) che rombava come una fuoriserie e che oltre i 100 ti scioglieva il grasso al culo. Servivano interfono e caschi d’astronauta per comunicare.
Questo pensiero ricorre ogni volta che viaggio per strade di Langa, dove ogni curva è fatta da un cielo e da una terra di sterminate vigne. Un territorio che ti toglie il fiato in ogni stagione e i ricordi si fanno fitti e il cuore sobbalza. Ricordo i soldi delle straordinarie del sabato, quando lavoravo in una fabbrica di biciclette, spesi a comprar bottiglie in ogni comune delle Langhe all’insaputa di mia madre. Ricordo le facce, le mani e le schiene curve dei contadini che andavo a incontrare. Il mito del vino stava lì e non riuscivo a vedere altro, oltre qualche salto toscano.
Ieri ci sono tornato, la neve rendeva tutto più ovattato e guardare quelle vigne dal basso verso l’alto, mi ha fatto girare la testa come guardando i grattacieli di Manhattan. e il ricordo va a Cesare Pavese e Beppe Fenoglio.
Questa volta ci sono andato con Antonio Mori, che ci teneva a farmi conoscere Giulio Viglione e aveva ragione.
Classe ’46 spessore da langarolo doc, è stato la sorpresa che mancava nell’era della disillusione più diffusa. Giulio è l’ennesima prova che le Langhe sono tali perché costituite da una base storica fatta da persone vere, alcune delle quali hanno deciso di farne una terra da vino e altre, che si sono trovate a dover produrre vino perché lì non c’era altro da fare.
E così, tra un fusillo al pesto fatto da lui e un bollito con cugnà, non ho potuto non notare che le bottiglie vengono etichettate a mano con pennellata di colla come si faceva un tempo e complice una Barbera presa da vasca, si diventa a poco a poco amici e si stappano bottiglie.
Dapprima una Barbera 2003, poi un Barolo 2004 e in chiusura un barolo del ’64 che in bocca pareva miele.
Giulio rientra tra quelli che si sono trovati a dover fare vino e non nasconde che il suo lavoro non gli piaccia poi tanto e senza alcun timore dichiara che se avesse maggior passione, il suo vino ne gioverebbe di certo. Io non posso che essere d’accordo e la sua storia, che a venticinque anni lo vedeva spacciato per un male incurabile e che lo ha fatto vivere con il pensiero di morire da un giorno all’altro, ha aiutato la mia comprensione.
Non mi è mai capitato, in vent’anni di fervida attività nel vino, di incrociare tanta onestà intellettuale. Valori come l’amicizia e l’onestà non sono frasi fatte per Viglione, ma l’essenza della vita e sono quelle cose meravigliose che –nonostante tutto il marcio che ci circonda-, continuano a farmi propendere a credere negli uomini.
E’ stato bello eppur triste conoscerlo. Non mi era mai capitato un vignaiolo che parlasse del suo lavoro quasi con sofferenza e rammarico. Sentirlo dire “Io volevo fare il meccanico e sono felice, ma felice davvero, solo quando si rompe il trattore: così posso aggiustarlo” è stata una fucilata su cui meditare.
Hai ragione Ale c’è da meditare, ma almeno ci troviamo di fronte a un uomo onesto. Pensa quanti che si immolano a straordinari produttori, raccontando mirabolanti storie e poi nei loro vini non trovi nemmeno una virgola che possa ricondurre al racconto. In quest’epoca, la trovo una cosa davvero nobile.
Quello che Giulio è lo ritrovi nel suo vino….
Io credo che Giulio sia meglio dei suoi onestissimi vini…