Vino e Tondino: finiscono in “ino” ma non sono la stessa cosa

Io prendo spunto, tu prendi spunto, essi sputano. 🙂

Giovanni Armanini, giornalista vero (e per fortuna nostrano), ha preso spunto dal mio post in merito al ruolo dei Consorzi, articolo che a mia volta avevo già spuntato da Angelo Peretti.

La riflessione molto acuta di Armanini è incentrata sul fatto che i Consorzi non abbiano tra gli associati i consumatori, i fruitori del prodotto.

Giovanni scrive:Troppo spesso in Italia quando si fa del B2B si dimentica che alla fine di ogni processo di mercato sta… il mercato, ovvero i consumatori, non le aziende. C’è la supponenza di pensare che si faccia sempre un prodotto perfetto a prescindere dalla domanda. Lo dico in generale, non solo riferito al mondo del vino.”

Nulla da eccepire, anzi, se non il fatto che questo concetto non è applicabile a Consorzi Vitivinicoli e, quando è stato cucito addosso ad aziende che producono vino, il risultato si è sintetizzato in un disastro per l’immagine del mondo del vino stesso.

Mi spiego meglio:

Il vino non può essere trattato alla stessa stregua del tondino(tanto per intenderci). Non è una cosa che puoi decidere a tavolino, o meglio, così non dovrebbe essere!

È un prodotto che non può prescindere dalla volontà dell’uomo che coltiva la vite e che si occupa della cantina. Ogni vino ha un nome e una ben precisa identità stilistica frutto delle decisioni del produttore. Ecco perché m’incazzo quando mi sento dire: “…a me il Barolo non piace”. Il Barolo di chi, di dove e di quando, rispondo sempre.

Chi decide di produrre il nettare di bacco in un determinato territorio che si fregia di una denominazione di origine, ha la possibilità di Consorziarsi se accetta di rispettare un disciplinare di produzione stabilito dall’insieme dei produttori stessi, sulla base di scelte stilistiche, tecniche e agronomiche. Scelte, queste ultime, che in sé hanno una miriade di possibili micro variabili, frutto della volontà dell’uomo (tipo il mio collega concima e io no… oppure l’utilizzo o meno del legno…) che determinano inevitabilmente gli aspetti organolettici e la qualità del vino, ma che in ogni caso sono la firma a calce del produttore. Le scelte dell’uomo incidono per il 95%, nel risultato finale di un vino.

Quindi, un prodotto inequivocabilmente unico, il vino, all’interno di un territorio le cui produzioni seguono uno stesso schema d’azione ma con una moltitudine di variabili.

La “new economy” del vino, quella che vede in testa facoltosi imprenditori venuti alla ribalta nell’ultimo ventennio, ha applicato al vino lo stesso concetto del produrre cazzi di gomma. Ricerca di mercato e coinvolgimento del consumatore medio per capire quale identità stabilire al prodotto, per poi creare un brand da alimentare e sostenere con una notevole massa critica di prodotti accessori, in grado di rincoglionire il consumatore (sempre quello medio) e di fargli percepire la qualità di un vino grazie a un marchio, a una forma, a un colore ma mai, per le oggettive caratteristiche organolettiche del vino. Questi, i consumatori li vogliono ignoranti almeno quanto loro(vedi il caso sulla data di sboccatura), altrimenti rischierebbero di vedere inflazionato il loro marchio. Solo il marchio, la loro preoccupazione, perché al vino manco ci pensano e così sputtanano un territorio con vini privi d’anima, a prezzi stracciati e che non offrirei nemmeno al mio peggior nemico.

Per concludere: il vino non deve essere prodotto in gettando un occhio alla domanda, che per altro risulta ciclica, ma deve saper stimolare la domanda stessa sulla base dell’identità di ogni singola produzione(che quando si sa produrre, in un territorio straordinario, non può non emergere), facendo cultura nel consumatore in maniera che possa scegliere un Vino, invece che un marchio.

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