Già… cosa ci stiamo perdendo?

Negli ultimi 15 giorni, prendendo spunto da un bellissimo esperimento sociale del Washington Post del quale potete leggere qui, ho deciso di fare, più o meno, una cosa simile con il vino. Ho contattato sei amici, tra i quali un produttore, un ristoratore, un rappresentante di vini, un grande appassionato, un amico dai sensi “super sviluppati” e un sommelier. Con una banale scusa ho chiesto loro una mano per scegliere tra sette vini quali fossero i due migliori, i più buoni. Così con una degustazione a carte scoperte, ovvero senza coprire le etichette, dove però nessuno poteva consultarsi con il vicino di sedia, ci siamo trovati in orario aperitivo nella cantina dell’amico produttore. GAJABARB03R

I vini in questione erano dei rossi provenienti dal Piemonte, tutti Barbaresco e tutti quanti dell’annata 2004. Non voglio fare alcun nome (la fotografia è puramente illustrativa), ne dei vini ne tantomeno delle persone presenti, in quanto questa sorta di “esperimento” aveva come obiettivo proprio quello (e cito le stesse parole del Washington Post) di testare se “In un ambiente comune ad un’ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?” ovvero un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone. Io ho voluto aggiungere “quanto può influire l’immagine sul giudizio?”. Come già vi ho detto i vini erano sette. Tra questi, tre nomi noti dell’enologia mondiale, mentre gli altri ho cercato di selezionarli consapevole che i degustatori presenti non ne conoscessero le caratteristiche se non per sentito dire. Il risultato è stato che quattro persone su sei ai primi due posti della classifica hanno segnalato due dei tre vini blasonati (gli stessi per tutti), gli altri due hanno indicato uno dei “famosi” (per altro lo stesso che hanno identificato anche gli altri) e uno meno conosciuto ma diverso per entrambi. Risultato, “famosi” battono “non famosi” per 10 a 2. A quattro giorni di distanza ho voluto ripetere lo stesso test con le stesse persone e con gli stessi vini, ma questa volta alla cieca, travasando i vini dalle loro bottiglie originarie in altre anonime e uguali per tutti. Il risultato mi ha stupito molto. Devo premettere che i miei amici sono degustatori di lungo corso, con diverse esperienze alle spalle. Persone capaci e profondi conoscitori del vino con i quali ho avuto modo di degustare in diverse occasioni. Risultato? Solo uno di loro (decisamente il più anarchico) ha saputo confermare esattamente quanto espresso quattro giorni prima. In tre hanno messo al primo e al secondo posto delle loro preferenze due aziende “minori” (non le stesse per tutti) mentre gli altri due, i quali avevano scelto solo i grandi nomi, alla cieca hanno dato ragione alla più sconosciuta delle sette aziende presenti. Ora, mi rendo conto che non tutti i giorni siano uguali, che i palati e i nasi delle persone possano subire variazioni nelle percezioni di gusti e profumi, ma non credete che, forse, nel nostro inconscio ci lasciamo condizionare da ciò che vediamo e da ciò che conosciamo già? Non credete che troppo spesso, come è accaduto a Joshua Bell, osannato il giorno prima a Boston da una platea pagante e consapevole di cosa avrebbe ascoltato, e scalzato (nell’espressione della sua arte) come un signor nessuno nella metropolitana di  Washington, anche nel vino possano esistere  tali e inconsapevoli variazioni di giudizio nella percezione della bellezza di un gusto? bot_albeisa1

Tutto questo per dire che spesso, anche nella scelta di un vino, ci si ferma all’apparenza, a ciò che quell’etichetta e quell’azienda rappresenta o ha rappresentato. A ciò che raffigura, a quello che ci ricordiamo del passato. Questa inconsapevole “ottusità” rischia di non farci scoprire cose meravigliose, di non farci apprezzare una bellezza scevra dalla banale apparenza, un gusto, un’emozione. E’ proprio vero, “cosa ci stiamo perdendo? ” o meglio, cosa rischiamo di perdere!

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4 risposte a "Già… cosa ci stiamo perdendo?"

  1. Ho letto con interesse il tuo post, altrettanto ho fatto con la fonte dalla quale hai ricavato la notizia dell’esperimento organizzato dal Washington Post e realizzato con la presenza di Joshua Bell (!!!) – altri particolari che possono aiutare nella comprensione delle dinamiche si trovare in quest’articolo apparso su Repubblica Joshua Bell nel metrò. Ti sembrerò supponente ma la cosa non mi ha meravigliato più tanto e, brevemente, vorrei dirtene i motivi. Viviamo, quasi tutti, ingabbiati tra sbarre che in parte la società in parte noi stessi abbiamo collocato attorno alla nostre vite, impegni, doveri, anche legittimi per carità, convenzioni, formalismi, e molte volte non abbiamo tempo per ciò che da essi si discosta (magari permettendoci di aprire un varco … ). Pubblicità martellanti e pressochè ubiquitarie ci guidono verso ben determinati oggetti e situazioni che, forse, senza questo decisivo aiuto non avrebbero altrettanta “presa”. Per godere appieno di alcune sensazioni, credo molto parzialmente nel mito del buon selvaggio, necessitiamo di “istruzioni”, di cultura, di studio, di applicazione. Metti insieme tutti questi accenni di motivi e avrai come triste e drammatico risultato quello avuto alla Enfant Plaza Station della metropolitana di Washington e in parte quelli che potrai ottenere con analoghe “sperimentazioni”.

  2. caro Giovanni,lo sai che purtroppo il lavoro non mi permette di seguirti assiduamente,però da quel poco che posso vedere devo dire che sati facendo un ottimo lavoro…non mollare…
    adesso passiamo al commento al tuo pezzo sulla degustazione…
    ottimo,hai perfettamnete centrato il senso della degustazione “famosa”…la maggior parte delle persone ,ma la cosa è perfettamnete normale,prima paga l’occhio e l’etichetta,poi il contenuto,…come ti ho sempre detto e ribadisco, la maggior parte delle persone e quindi il “popolo”,si orienta sull’estetica e quindi l’etichetta…
    non vorrei scatenare una reazione a catena,ma di persone che veramente s’intendono di vino…non ce ne sono molte….qui lo dico e qui lo nego….
    io stesso quando assaggio un vino cerco di capire,ma alla fine se al mio personale gusto mi piace ..beh è buono anche se la cantina è sconosciuta,ma se non mi aggrada anche se fosse il numero uno al
    mondo non lo berrei, devo dire che in questo caso l’etichetta ha un suo valore,perchè l’approccio visivo in minima parte parte tende ad influenzare prima la scelta e poi al gusto.
    E’ ovvio che se il vino in oggetto avesse una strepitosa etichetta ma al gusto fosse veramnete imbevibile allora…..
    chiudo questo mio intervento facendoti ancora i complimenti per il tuo operato.
    ciao
    Felix

  3. caro Giovanni, penso che entrambe le degustazioni siano valide, ed entrambe siano coerenti con il fine che ti eri preposto.
    Le conclusioni, permettimelo, sono secondo me differenti in quanto sei stato abbastanza scrupoloso da riuscire a scomporre la qualità intrinseca dalla qualità globale del prodotto.

    Da quando esiste il packaging moderno (dal 900) esiste la pubblicità, e la qualità intrinseca del prodotto è fortemente influenzata dalla promessa che il contenitore rivela in merito al proprio contenuto.
    Proprio in quest’ottica (e chi si occupa di piccola e grande distribuzione lo sa benissimo) si gioca la partita della giustificazione del (sovra)prezzo in relazione alla qualità.

    In un gruppo di prodotti a cui appartiene anche il vino, spesso lo status symbol che il consumo di un determinato marchio, esposto e osannato è un forte incentivo alla percezione qualitativa.
    Questo è un dato di fatto e non dovresti perciò stupirti se qualcuno, bevendo il vino di una cantina famosa, si senta legittimato a collocare lo stesso in una categoria merceologica superiore.

    Alla cieca vengono invece valutate le caratteristiche intrinseche di un prodotto e, scremata la variabilità della percezione sensoriale differente da giorno a giorno, vengono visionati gli aspetti prettamente sensoriali. Il processo di identificazione del consumatore in un marchio e nella storia del prodotto stesso di fatto non avvengono.

    Sono certo che coloro che valutano meglio i prodotti per quello che realmente sono appartengono ad una classe di “tecnici”, in quanto abituati a dare una valutazione rigorosamente oggettiva e schematica.

    Non mi sento di biasimare il consumatore che, influenzato dal marchio, decida volontariamente di spendere una quota aggintiva al valore intrinseco, per poter appartenere allo status symbol proposto, al bar, la sera, con amici.

    Forse, ripeto, su questa sottile differenza si gioca il ruolo di comunicatore del vino.

  4. Concordo sul ruolo di status symbol che il vino (certi vini) ricopre e concordo anche sull’oggettività di una valutazione tecnica. Ma in questo caso ho voluto testare le persone, tra le quali anche qualcuno il cui lavoro nella vita è appunto degustare, da un punto di vista prettamente edonistico, perchè spesso chi si fa influenzare dall’immagine non è il tecnico ma bensì il consumatore occasionale. Per quanto concerne il ruolo del comunicatore del vino, credo che lo stesso non debba essere esclusivamente un esperto di pubblicità, ma debba essere conoscitore delle dinamiche del settore vino e del vino stesso. Questo è la sottile differenza.

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